Nel 1959 viene proiettato a Cannes per la prima volta il film Hiroshima mon amour di Alain Resnais, con la sceneggiatura firmata dalla celebre scrittrice Marguerite Duras, che racconta della relazione appassionata tra un’attrice francese, in Giappone per le riprese di un film sulla pace, e un architetto del posto. Il sentimento che nasce tra i due personaggi evoca nella mente della protagonista il ricordo dell’amore vissuto a Nevers, suo paese natale, con un giovane soldato tedesco, ucciso sotto i suoi occhi. Una corrispondenza di eventi che segna tutta la costruzione del film, composta sul gioco dialettico dei contrari che aprirà, nel finale, a una sorta di liberazione dalla memoria della protagonista. Oltre sessant’anni dopo, cosa resta di quell’opera capitale che, provando a rappresentare l’irrappresentabile – ovvero dare conto della catastrofe della bomba atomica su Hiroshima –, ha connotato il cinema del ventesimo secolo?
«Impossibile parlare di Hiroshima – scrive Duras esponendo la sinossi del film –. L’unica cosa che si può fare è parlare dell’impossibilità di parlare di Hiroshima». Per evidenziare questa “eccedenza” tra linguaggio e contenuto, significante e significato, l’autrice scrive una battuta che, all’inizio del film, il protagonista maschile ripete più volte a quello femminile: «Tu non hai visto niente a Hiroshima». Il vero orrore resta inguardabile, indicibile, come lo sguardo insostenibile di una Medusa. Secondo Duras – spiega la studiosa Anna Boschetti – «non si può testimoniare Hiroshima. L’unico modo, per l’autrice, è trasmettere il dolore del lutto più personale e più universale che si possa concepire, quello per la persona amata».
Il testo di Fabrizio Sinisi mette in scena questo cortocircuito tra vita e opera, tra linguaggio e presente, mescolando la trama del film e le osservazioni della stessa Duras. Le sue parole prendono vita grazie al talento di Valentina Bartolo e di Francesco Sferrazza Papa, diretti dal regista Paolo Bignamini, e alle musiche dal vivo di Corrado Nuccini, fondatore dell’iconica band del post rock italiano Giardini di Mirò.
Si tratta di un confronto, oggi forse più che mai necessario, intorno alla domanda: si vuole, si può, si deve rappresentare l’orrore? Si vuole, si può, si deve provare a dire quello che non può essere detto?